venerdì 28 novembre 2014

Se questo è un... giornalista

Voi che leggete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate uscendo al mattino
l'edicola e il giornale:
considerate se questo è un giornalista
che lavora nel fango che non conosce ore
che lotta per un articolo
che scrive per otto euro.

martedì 25 novembre 2014

Concorrenza "sleale"


Carta e internet. Due mondi dell'informazione antitetici, in concorrenza, ma impari. Mentre per comperare il giornale bisogna uscire di casa, recarsi in edicola e sborsare quasi un euro e mezzo, per leggere un giornale web basta accendere il pc senza sborsare un centesimo. Ma la differenza non sta solo nella gratuità, anzi probabilmente si tratta dell'aspetto meno importante, ci sono anche tanti free press. La discriminante a mio avviso sono i contratti di chi opera per le testate tradizionali e i contratti – o meglio i non contratti – di quanti prestano servizi nei vari giornali online, sebbene regolarmente registrati in tribunale.
Il mio editore infatti mi ha assunto, contrattualizzato, inquadrato professionalmente per la mansione che svolgo e per me paga contributi e oneri. Tanti di coloro che invece lavorano in giornali telematici proseguono a co.co.co., co.co.pro, partite Iva, nonostante fungano contenmporaneamente da collaboratori, corrispondenti, redattori, caposervizio, grafici e tipografi. E così il confronto non regge.
Tutto regolare a quanto pare per carità, ma non va bene lo stesso. Non capisco infatti perchè un editore che investe nei media canonici e con esso i suoi dipendenti debbano sottostare a precise e spesso costose regole, mentre chi punta sull'informazione virtuale no, pur trattandosi spesso appunto di organi di stampa registrati in tribunale. E' roba da concorrenza cinese, con tutto il rispetto per i cinesi e i colleghi dell'online a cui spesso tutti noi attingiamo per riproporre notizie che corrono in rete, trovate e scritte proprio da questi colleghi
E non capisco perché il nostro sindacato su questo tema non sia mai intervenuto: si ridurrebbe il precariato, si recupererebbero risorse per gli istituti previdenziali, si garantirebbe finalmente parità di trattamento. Perché giornalista lo è chi svolge questa professione, indipendentemente da dove si scriva... Perché il lavoro è reale, sempre, e anche gli articoli che si scrivono e i servizi che si propongono.

domenica 23 novembre 2014

Nominano il generale, congedano i soldati


Ragionando con uncollega ho compreso forse perché sia stat nominato direttore editoriale di un noto giornale il dottor Bruno Vespa, di cui non si mette assolutamente in discussione la professionalità né la capacità di trainare le testate che dirigerà dall'1 dicembre fuori dal pantano della crisi dell'informazione cartacea, certamente io non lo faccio. Si ragionava e si pensava con questo collega che magari, dopo anni e anni di collaborazione, abbiano deciso di regolarizzare la sua posizione, nonostante abbia ormai valicato la soglia delle settanta primavere e goda, si presume, di un'appropriata e meritata pensione
Ma c'è chi può e chi non può...
Peccato infatti non siano stati in qualche modo regolarizzati o stabilizzati quei corrispondenti e quei redattori con contratto a termine che al contratrio sono rimasti a casa, nonostante gli anni di più che onorato servizio, nonostante tutti i giorni da lustri contribuiscano in maniera determinante all'uscita dei del medesimo giornale in edicola, nonostante probabilmente con il compenso del nuovo direttore editoriale già pensionato si sarebbe potuto pagare almeno quattro o cinque – per stare basso – dei loro stipendi.
E così si nomina un nuovo generale, ma senza esercito, perché i soldati, i fanti li si congeda con un semplice “è stato bello, arrivederci”, senza nemmeno un grazie.
Temo pagherò tutto questo, non importa, non sarebbe la prima volta, è già successo, ma forse è tempo che tutti ci mettano faccia e chiappe, il nostro di volto, il nostro di sedere. Per provare almeno a cambiare l'andazzo: le nostre battaglie dobbiamo combatterle noi per primi.

venerdì 21 novembre 2014

C'è qualcosa che non va...


“C'è qualcosa che non va in questo cielo...” recita una canzone del mitico Blasco Vasco Rossi del 1987.
Già, c'è qualcosa che non va.... Quando in un'azienda editoriale, che conta già quattro direttori e sei vicedirettori, viene reclutato un nuovo, un altro direttore editoriale. Non uno qualsiasi, ma uno di calibro nazionale le cui qualità professionali sono indiscusse come la probabilmente capacità di fungere da traino e da richiamo per la testata – le testate – che è chiamato a dirigere, ma che certamente – e giustamente - costerà pure qualcosa in termine economici. Tutto ciò mentre ai giornalisti di quelle testate vengono chiesti continui sacrifici, in termini di incombenze e carichi di lavoro, in termini di perdite occupazionali – cioè di colleghi -, in termini di continui straordinari quotidiani, come tempo e come impegno, non retribuiti e nemmeno apprezzati e valorizzati, in termine di contratto di solidarietà prima e di cassa integrazione adesso.
C'è qualcosa che non va... Quando in un'azienda editoriale i giornalisti vengono cacciati o “esodati” dalla porta principale beneficiando di pensionamenti obbligatori e prepensionamenti, pagati da tutti i giornalisti e da tutti i contribuenti - e successivamente questi stessi giornalisti cacciati o “esodati” vengono fatti entrare dalla finestra per svolgere il medesimo ruolo e assolvere le medesime incombenze, quando allora li si sarebbe potuti/dovuti mantenere in pianta organica rispettando la loro professionalità e la loro importanza e insieme utilizzando meglio i denari dei colleghi e dei cittadini.
C'è qualcosa che non va... Quando in un'azienda editoriale si ambisce a diventare il primo gruppo dell'informazione nazionale, ma nel contempo si decimano i redattori, si falcidiano i corrispondenti, si annichiliscono i collaboratori quasi che le notizie e la qualità piovessero dal cielo e non siano invece frutto delle capacità di giornalisti di cui ci si vuole disfare.
Che poi non è neanche solo un'azienda editoriale, sono tante, sono troppe, forse tutte.
Già. “C'è qualcosa che non va in questo cielo... C'è qualcuno che non sa più cosa è un uomo...”


giovedì 20 novembre 2014

Un manifesto politico, sociale e sindacale



Non si può che condividere e apprezzare. Quanto espresso da Papa Francesco è un vero e proprio manifesto politico, sociale, anche sindacale

I cinesi dell'informazione

Diventare ancora più invisibili per cercare di apparire, anzi per tentare di dimostrare e mostrare l'importanza del nostro lavoro. Con i miei colleghi corrispondenti de Il Giorno stiamo attuando lo sciopero delle firme, per protestare contro la decisione del nostro editore di non rinnovare il contratto a quattro di noi dopo anni di impegno e lavoro e di non riconoscere il loro diritto meritato e acquisito al posto di lavoro. Ma anche per denunciare i compensi irrisori: da 2,5 a massimo 13-15 euro per ogni articolo pubblicato sul giornale cartaceo e da 2,5 a 4,5 per sui portali internet, roba da "cinesi dell'informazione".
Non apporre la firma né la sigla in calce agli articoli significa palesare visivamente che senza di noi quegli articoli, quelle notizie, non ci sarebbero, il giornale sarebbe più povero, la qualità e la puntualità dell'informazione più scarne, forse nulle. La firma e la sigla per chi svolge la mia, la nostra professione significano assunzione di responsabilità verso i lettori di quello che si scrive, ma anche la fatica, l'entusiasmo, le relazioni, le fonti, i sacrifici, i chilometri, le ore piccole, le verifiche, gli approfondimenti, le telefonate... che permettono di scrivere un articolo.
Temo non servirà a nulla, dai vertici aziendali non abbiamo ricevuto alcun riscontro, nemmeno un rimprovero, solo indifferenza e silenzio assordante, come se non esistessimo appunto. Non importa, in tanti hanno compreso e condiviso, con noi tanti colleghi redattori e anche tanti collaboratori - loro che un contratto se pur misero e umiliante nemmeno lo hanno – hanno compiuto la medesima scelta per solidarietà e ciò rappresenta comunque un importante riconoscimento.
Di certo non ci arrendiamo, non ci fermiamo, non abbiamo più nulla da perdere, se non la dignità umana e professionale da preservare, per noi e per coloro la cui dignità professionale e umana è già stata calpestata a oltranza.

martedì 18 novembre 2014

I conti della serva

Non sto a dilungarmi su concetti come dignità umana e professionale, equo compenso, stipendio commisurato alla qualità e alla quantità di lavoro, libertà di informazione, né su cosa comporti scrivere una notizia, sulle fonti, sulle verifiche, sugli approfondimenti...
Mi limito ad alcune cifre, ai conti della serva, anzi del servo, cioè il sottoscritto.
Per i 125 articoli scritti nel mese di ottobre percepirò una media di 7 euro netti per ogni pezzo pubblicato – pubblicato, perchè quelli commissionati ma non pubblicati non vengono pagati, come se tu ordini dieci pizze e poi ne rispedisci indietro cinque pretendendo di non pagarle -. Per i 50 pubblicati in internet invece si scende a 2,7 euro.
La media complessiva tra articoli per il giornale cartaceo e la versione online diventa 6 euro e rotti centesimi. "That's the press, baby! The press! And there's nothing you can do about it. Nothing!": “È la stampa, bellezza, la stampa. E tu non ci puoi fare niente. Niente”... Già proprio niente...

lunedì 17 novembre 2014

Gli invisibili

Per gli editori i corrispondenti, cioè i giornalisti che sono a caccia di notizie sul territorio, che rappresentano i giornali sul territorio, che sono i primi ad arrivare sulle scene di incidenti, omicidi, che scorrazzano per municipi, caserme, commissariati, bar, nei paesi insomma... non esistono. Gli rendiamo tanto ma costiamo poco e allora ci ignorano. Ma poiché il nostro contratto è debole, non ci tutela molto, quando devono far quadrare i conti, si ricordano che ci siamo. In realtà noi ci siamo tutti i giorni, tutti i giorni riempiamo i loro giornali e i loro siti internet, tutti i giorni regaliamo loro per 10 euro lorde notizie inedite, esclusive o particolari, tutti i giorni contribuiamo in maniera determinante ai loro giornali, che magari sono in crisi, magari hanno i bilanci in perdita, magari gli costano, ma che gli consentono comunque di “controllare” l'informazione e l'opinione pubblica con quanto ciò comporta come contropartite.
Ecco, siccome noi ci siamo, a Il Giorno abbiamo deciso di renderci visibili diventando invisibili, cioè non firmando né siglando i nostri articoli, così gli editori o chi per essi, notando la mancanza di nomi e cognomi, forse si renderanno conto che adesso non possono leggere le firme, domani, chissà, nemmeno le notizie. E magari se ne accorgeranno anche i lettori, che potrebbero o non comperare più il giornale o mandare email di protesta agli editori o chi per essi.

giovedì 13 novembre 2014

Ascoltavano la radio delle forze dell'ordine, assolti due giornalisti

Due colleghi de Il Giorno edizione di Legnano sono stati definitivamente assolti dopo essere stati denunciati e processati perchè in redazione detenevano i “famigerati” scanner, le radioline con cui tutti noi cronisti ascoltiamo le conversazioni in chiaro degli operatori delle forze dell'ordine. A archiviare definitivamente il caso sono stati i giudici della V sezione penale della Suprema corte di Cassazione, che ha respinto il ricorco presentato dal procuratore generale della Corte di appello di Milano dopo che i togati di secondo grado avevano confermato l'assoluzione formulata in primo grado. Una buona notizia per i due colleghi innanzitutto ma anche per tutti noi giornalisti. Resta da capire perché qualche magistrato abbia deciso di sperperare soldi pubblici e far spendere denaro ai due giornalisti non per una, non per due, ma per tre volte. E vorrei anche comprendere perchè io invece sono stato condannato!!! Scherzo naturalmente, almeno sulla mia vicenda, non sull'accanimento di taluni operatori della giustizia nei confronti dei giornalisti.

mercoledì 12 novembre 2014

I conti non tornano: 4,5 euro all'ora

La mia ultima busta paga nel “totale compenso netto a pagare” riporta la stratosferica cifra 1.287 euro che comprendono due domeniche di turno, 72 articoli scritti per l'edizione cartacea, una foto fornita sempre l'edizione cartacea e 55 pezzi confezionati appositamente per i portali internet insieme ad altre 5 foto, che, da soli per il web intendo – mi hanno fruttato la bellezza di 76,5 euro.
Compiendo qualche operazione, decurtate le domeniche e il bonus di 80 euro concesso dal beneamato Premier, ogni articolo – una media di 5 o 6 al giorno sempre sottraendo le domeniche di “riposo” più alcuni giorni di ferie goduti e un paio di trasferte a Bologna per motivi sindacali - e ogni fotografia mi sono stati pagati complessivamente 7,8 euro. Se in realtà si detraggono le foto, per le quali mi vengono riconosciuti 2,5 euro a scatto, per lo scrivere, che poi è il mio lavoro, ho incassato 7,96 euro puliti a pezzo.
Certo, in diversi casi si è trattato di riprendere comunicati stampa o agenzie, una sorta di guadagno facile insomma, non lo nego, ma in molti altri casi, la maggior parte, quei 9 euro scarsi hanno richiesto nella migliore delle ipotesi contatti con fonti "coltivate" in anni di relazioni e di fiducia per diventare tali, chilometri e chilometri in auto o a piedi, telefonate su telefonate, nottate fuori casa con la tuta indossata in fretta e furia sopra il pigiama, ore su scene di incidenti o disastri, sottola pioggia o il sole battente, tempo a scartabellare documenti amministrativi o atti giudiziari di centinaia di pagine magari su argomenti complessi come mafia e tangenti, lunghe e pazienti attese, pranzi e cene interrotte dagli eventi, rischio di querele, persino insulti o aggressioni, interviste non semplici da sintetizzare, discussioni con politicanti arroganti, serate davanti al pc o con le cuffie del cellulare infilate nelle orecchie invece che sul divano o accanto al letto dei figli per augurare sogni d'oro, momenti familiari irrimediabilmente perduti per sempre perché la cronaca quando arriva arriva come il Natale e non aspetta, senza naturalmente dimenticare i momenti trascorsi alla tastiera raramente per buttare giù poche righe al volo più spesso per almeno provare quanto meno a fornire allo scritto un senso compiuto, logico e chiaro di vicende complesse.
Mi sono anche dilettato a conteggiare la tariffa oraria, certamente poco significativa in una professione come la mia e con un contratto che non prevede vincoli di presenza ma molto più frequentemente nemmeno garanzie di “pause” comandate perché si resta perennemente in balia di quello che accade e ad aspettare quello che può succedere. Ebbene, sommariamente per la vita – perchè di questo si parla, di esistenza dedicata a una mansione, mia e di riflesso di mia moglie e dei mie bimbi – trascorsa in servizio ho incassato 5 euro all'ora: sia bene inteso però, il risultato è in eccesso, perché verosimilmente si attesta più vicino ai 4,5.
E non è finita qui. Purtroppo. Il mese prossimo la conta sarà ancora più desolante, perché sempre per contratto io dovrei garantire 100 articoli al mese per l'edizione cartacea e quindi mi verrà decurtato il pagamento dei 30 - 28 per la precisione - che sono mancati all'appello. I numeri pertanto si abbasseranno ulteriormente.
Penso che si tratti di risultati non molto in linea con l'articolo 36 della costituzione che recita che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”.
Tralasciando i sofismi sulla poco comprensibile distinzione tra le tariffe “cartacee” e quelle “online”, dato che un articolo è sempre un articolo, o sulla formula contrattuale da addetti alla catena di montaggio in nome della produttività, in tutto ciò forse i denigratori dei giornalisti potrebbero trovare magari qualche risposta circa i legittimi dubbi della scarsa qualità dell'informazione e della libertà di informazione in Italia. Anche perché, nonostante tutto, io sono comunque tra i fortunati, tra i privilegiati, tra i “salvati” rispetto ai “sommersi” perché un contratto ce l'ho, il posto fisso pure, 8 euro ad articolo nel mio settore sono considerati tanti, addirittura troppi, il mio editore in confronto ad altri paga meglio e paga puntuale come un orologio svizzero. Quindi non voglio “lamentarmi”, voglio solo riflettere, sarebbe irriverente e irrispettoso dei tanti colleghi collaboratori, co.co.co, co.co.pro, partite Iva più meritevoli e capaci di me con cui ho a che fare quotidianamente che tuttavia il mio stipendio da tutelato se lo sogneranno per sempre.
Quello che è chiaro è che i conti no, non tornano proprio. Dignità, equità, riconoscimento della professione sono inversamente proporzionali all'attività giornalistica, un'equazione impossibile da risolvere. Ma di tutto ciò in questi anni, da chi avrebbe dovuto rappresentarci a livello nazionale, non ne ho sentito parlare. Ecco, forse è il caso che si discuta anche di questo, perché altrimenti si cadrà di nuovo nella trappola di discutere solo di come facilitare licenziamenti, prepensionamenti, esodi, ridimensionamenti, riduzione dei costi invece che di come permettere a chi ha un lavoro di continuare a tenerselo il lavoro e magari con questo lavoro di provare a camparci pure.

martedì 11 novembre 2014

Addetto stampa poco addetto

Nella legge di stabilità sono previste alcune norme che, se applicate, lascerebbero in strada decine di colleghi che prestano servizio nella pubblica amministrazione. Per i riferimenti è possibile consultare l'articolo 35, comma 15, relativo ai rapporti di lavoro costituiti sulla base dell’articolo 90 del decreto legislativo 18 agosto 2000, numero 267, con il quale tali contratti verrebbero terminati. Ma come al solito in Italia ci sono sempre i più realisti del re, che hanno addirittura anticipato i tempi. Succede a Lecco ad esempio, dove il sindaco e gli assessori hanno approvato una delibera, la 179 datata 1 ottobre 2014, che riguarda le “modifiche all'assetto organizzativo sulla rete dei servizi di informazione, comunicazione e partecipazione. Con tale atto il ruolo di addetto stampa è stato assegnato a una dipendente dell'ente, non in possesso dei requisiti perché nemmeno iscritta all'albo professionale, con buona pace di prevede un'altra legge, la 150/2000. Toc toc, c'è qualcuno? Se c'è batta un colpo per favore. Io non mi intendo molto di questo argomento, ma sarebbe il caso che qualcuno più titolato ed esperto di me intervenisse.

domenica 9 novembre 2014

Lo scanner

L'editoriale di Claudio Brambilla su Merateonline mi ricorda che dieci anni fa uscivo sorridente dal tribunale di Lecco, assolto con formula piena dopo un grottesco processo che mi ha visto sul banco degli imputati per aver ascoltato tramite uno scanner – anzi due, perchè con me ne avevo sempre uno di riserva caso mai si scaricassero le batteria – le conversazioni in chiaro delle forze dell'ordine e per averne divulgato i contenuti, che poi significavano incidenti, furti, rapine. Non sapevo quello che sarebbe accaduto dopo, in una vicenda ancora più assurda di quanto lo sia stata l'”indagine” che mi ha portato per la prima volta a sedere dalla parte dei presunti “criminali”, non sapevo cioè che in Appello sarei stato condannato a un anno e tre mesi di reclusione, sentenza poi confermata dai giudici della Cassazione, sebbene né in secondo grado né in Suprema corte qualcuno si fosse degnato di ascoltarmi e abbiano deciso tutto in poche ore sulla base di scartoffie...
Considero la condanna una medaglia, un onore al merito al mio, nostro, impegno, al mio, nostro, inseguire le notizie a tutti i costi, al mi, nostro, essere presente/i sul territorio... Ma la considero anche un bel ricordo degli inizi della mia “carriera”. Forse non provo più rabbia per quello che è stato solo perché, nonostante il tempo e i soldi spesi – di chi mi ha pagato l'avvocato cioè Claudio Brambilla, ma anche dei contribuenti che hanno pagato stipendi di carabinieri, pubblici ministeri, periti e magistrati, che già tutto ciò meriterebbe qualche riflessione sul sistema giudiziario e penale nostrano – non ho trascorso nemmeno un giorno in galera e tutto si è risolto con una sorta di semplice buffetto, nulla più. Oppure perché ho avuto il mio piccolo momento di celebrità e un'avventura da raccontare e di cui vantarmi. O semplicemente perché tanto è inutile farsi il sangue amaro su ciò che non si può cambiare.
Lo scanner, marca Icom modello Ic-R, comunque l'ho ancora, non funziona più, come ogni cosa che passa per le mani dei figli, ma l'ho ancora, accanto alla scrivania, ricoperto di polvere. In dieci anni ho sviluppato fonti, contatti, relazioni, che mi permettono il lusso di rinunciarvi, ormai molte informazioni passano da comunicati stampa e note ufficiali. Il resto lo fa forse pure la paura di finire di nuovo nei guai... Però lo scanner è lì, spesso lo guardo e mi ricorda che quello era ed è il modo migliore di svolgere questo fantastico mestiere, ascoltando il gracchiare della selettiva, interpretando i Delta 10 e i Delta 11 (incidenti e incidenti con feriti), l'allarme Romeo (rapina), i Mike 1 (la stazione dei carabinieri di Merate), India (il comandante di Compagnia), Fiamme (l'elicottero), il primo e il secondo ordinario...
Sapete che c'è? Quasi quasi ne compro uno nuovo... in fondo mi ha portato bene!

sabato 8 novembre 2014

Io ci sono

Io ci sono. Lo dico con orgoglio e insieme con timore perché lasciarsi “giudicare” non è semplice, il timore di una sconfitta, di non essere votati, di non venire eletti, inutile negarlo, spaventa e brucia. Non importa, io ci sono, alle corsa per il rinnovo delle cariche dell'Alg, Associazione lombarda giornalisti e della Fnsi, Federazione nazionale della stampa italiana, io ci sono.
Perché non ci si può sempre lamentare di ciò che non funziona e poi non metterci la faccia per provare a cambiare o correggere quello che non va. Perché ritengo – forse con supponenza – di aver maturato sensibilità verso le problematiche del lavoro della nostra categoria, che, nonostante tutto resta la professione più bella del mondo. Perché penso che occorrano persone entusiaste e che hanno l'ambizione, la passione e la volontà di cancellare le discrepanze, le ingiustizie, i paradossi del nostro sindacato. Io questo entusiasmo, questa passione, questa volontà reputo di averli. E insieme ritengo di aver acquisito pure una parte di esperienza, trattando ai tavoli della mia Azienda, confrontandomi con colleghi per i quali siamo riusciti a ottenere un contratto dovuto e pure con coloro ai quali invece questo diritto non è stato riconosciuto, sperimentando quotidianamente il significato di stato di crisi, contratto di solidarietà, cassa integrazione, disoccupazione, licenziamenti, precariato.
Vorrei innanzitutto che i giornalisti siano considerati giornalisti e basta, non importa se assunti a tempo indeterminato, determinato, con contratti co.co.co, co.co.pro, di collaborazione, con partita Iva, con la funzione di redattore, da corrispondente... perché giornalisti lo siamo tutti noi che viviamo di giornalismo e per il giornalismo, allo stesso modo, con pari dignità. E in nome di tutto questo tutti meritiamo di essere tutelati, difesi, considerati. Vorrei pure che il sindacato dei giornalisti sia il sindacato di tutti i giornalisti, specie di chi ha bisogno, offrendo consulenza legale gratuita ove serva, costituendosi parte in causa nelle aule della giustizia dove è necessario. Vorrei allo stesso modo che il Circolo della stampa sia la casa dei giornalisti, soprattutto di chi non ha un luogo dove scrivere, lavorare, telefonare, collegarsi a internet, inviare fax, preparare un servizio, non un luogo di un club esclusivo. Vorrei poi che il sindacato torni ad essere sindacato, che tuteli i giornalisti innanzitutto e che non si sostituisca agli editori: non significa conflitto, significa distinzione dei ruoli, perché ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, non quelle di altri. E vorrei tanto altro ancora: un compenso equo, come prevede la Costituzione, pari opportunità non solo di genere, premio del merito, dialogo e confronto con i componenti degli altri organismi di categoria, come l'Ordine dei giornalisti...
Cambiare non solo si può, cambiare si deve.
Ringrazio quindi chi mi ha nuovamente offerto un'opportunità.
Io ci sono. E comunque vada lo considererò un successo. Perché almeno ci tento, mi metto in gioco, insieme ad altri che come me reputano che il “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”, ma pure che il lavoro oltre a un diritto sia un dovere e chi  il lavoro lo ha ha anche il dovere di adoperarsi per chi purtroppo no.
Io ci sono. E voi ci state con me, anzi ci state con noi?

domenica 26 ottobre 2014

Il posto... fesso

Il posto fisso non esiste più. Io, noi, che pure il posto fisso come mosche bianche lo abbiamo ancora, lo avevamo capito da tempo. Ne abbiamo visti a decine di colleghi falcidiati dopo innumerevoli mesi di contratti a termine, anzi a “scadenza”, come la maionese impazzita. Non numeri, ma persone, con nomi, cognomi precisi, storie individuali, famiglie, aspettative, sogni, professionalità grinta, passione, “uccisi” dai ladri di futuro. E ogni giorno lavoriamo con collaboratori coordinati e continuativi, collaboratori a progetto, collaboratori a partita Iva, abusivi, semiabusivi, senza i quali molte pagine dei giornali, cartacei e telematici, non potrebbero essere pubblicate. Ma anche noi “tutelati” o “garantiti”, per ora privilegiati e fortunati rispetto agli altri, non ci sentiamo più tanto “tutelati” o “garantiti”. Prepensionamenti più o meno volontari, contratti di solidarietà, cassaintegrazione, stati di crisi, trattative al ribasso in nome della recessione e del difficile momento dell'editoria hanno reso e rendono tutti precari. Il problema non è il posto fisso, il problema è il posto, i posti, perché chi esce o viene fatto uscire non riesce più a rientrare, non solo come “tutelato”, ma nemmeno come precario. Credo che le riforme serie non si realizzino abrogando le tutele, ammesso che ne esistano ancora, né rivelando l'ovvio. Lo comprenderebbe anche un fesso come me!

giovedì 16 ottobre 2014

Non sarà troppo?

Altro che equo compenso! Altro che reddito minimo garantito! Altro che dignità dei giornalisti! Quelli dell'amministrazione comunale di Campi Bisenzio, Firenze - centrosinistra naturalmente! -, cercano un direttore responsabile per il giornalino municipale, che mi dicono essere una testata storica nel settore. I requisiti? Essere un giornalista professionista o pubblicista iscritto all'albo. Il compenso? Udite udite: la bellezza di 50 euro al lordo delle ritenute fiscali a numero, quattro pagine in formato A3. No, non è uno scherzo, è tutto riportato sul sito internet dell'ente locale, cliccare per credere. A trarre i conti verrà sì e no 600 euro, naturalmente lordi, in un anno. Non sarà troppo? “E' la stampa, bellezza! E' la stampa! E tu non ci puoi far niente! Niente!”

mercoledì 8 ottobre 2014

Il disequo scompenso alla sbarra, la corte si aggiorna

I magistrati del Tar del Lazio hanno fissato per gennaio l’udienza sulla faccenda dell’equo compenso, che di equo e di compenso mi pare abbia proprio nulla. Se infatti la proposta era nata con lo scopo di garantire delle tariffe giuste ai giornalisti precari, con tutto quello che ciò implica sulla libertà di informazione, democrazia e tutti questi bei principi, il documento approvato poi dai capidelegazione del sindacato nazionale e degli editori  non assicura niente di tutto ciò, né prezzi adeguati al lavoro che si svolge né i precari, perché contiene tante e tali formule che alla fine consentono ai proprietari dei mezzi di informazione di pagare ancora meno. Mi riferisco ad esempio alle clausole che escludono le partite Iva, oppure che prevedono tariffe decrescenti in base alle numero dei pezzi scritti, o alla forfetizzazione… con il risultato che coloro che dovevano essere maggiormente salvaguardati non lo saranno e che chi in qualche misura lo era non lo sarà più. Chiunque svolga questo mestiere e conosce come girano le cose nelle redazioni se ne sarebbe accorto, non quelli della Fnsi, che evidentemente – come dimostrato dal referendum sul nuovo contratto nazionale – ormai hanno perso ogni contatto (ma anche il contratto!!!) con chi dovrebbero rappresentare .
Insomma l’equo compenso, successivamente definito reddito minimo garantito (3mila euro all’anno reddito minimo garantito?!?), si dovrebbe chiamare piuttosto disequo scompenso, come lo scompenso cardiaco che ha provocato in quanti veramente ci hanno creduto .
Fortunatamente quello che non hanno capito i nostri sindacalisti lo ha capito il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino che ha presentato ricorso ai giudici del Tribunale amministrativo regionale. Ebbene oggi, mercoledì 8 ottobre, a poche ore dal termine dellaGiornata del lavoro dignitosi, i togati hanno riaggiornato la trattazione della questione tra tre mesi, pochi dati i tempi biblici della giustizia italica. Evidentemente si sono fatti l’idea che sussistono elementi per spicciarsi.
Due aspetti però mi inquietano. Il “dopo” innanzitutto, nel senso che non vorrei che l’equo compenso finisca nel dimenticatoio e nessuno ci metta più mano. In ogni modo meglio nessuna legge che una cattiva legge. Inoltre ho qualche perplessità sulla frattura tra esponenti della Fnsi e dell’Odg, sancita dal ricorso presentato da questi ultimi. In un momento storico come questo in cui tutti noi giornalisti siamo criticati, vituperati, minacciati (magari anche per colpa di qualche collega che scredita l’intera categoria) un poco più di unità non guasterebbe, non per corporativismo, ma per respingere con più fermezza gli attacchi di chi pensa che l’articolo 21 della nostra Costituzione sia da rottamare.

martedì 7 ottobre 2014

Il lavoro non dignitoso non è lavoro

In pochi lo sanno, ma oggi, il 7 ottobre , è la Giornata mondiale del lavoro dignitoso. Sandro Pertini diceva che non si può "considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro,che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli ed educarli". E ancora: "Questo non è un uomo libero. Sarà libero di bestemmiare, di imprecare, ma questa non è libertà".
Parlare di lavoro dignitoso quando è già difficile parlare di lavoro pare quasi un paradosso. Eppure io credo che un lavoro non dignitoso non sia lavoro. E' sfruttamento, è ricatto, non è lavoro.
Ecco, io credo che non si possa considerare veramente libero un uomo che non ha un lavoro dignitoso, che è umiliato dal costante ricatto dalla crisi, che viene sfruttato in nome delle rischio della perdita del posto di lavoro. E questo purtroppo capita anche nei giornali, che dovrebbero essere i guardiani della democrazia, ma che spesso invece diventano il luogo del ricatto e dello sfruttamento.

sabato 4 ottobre 2014

La droga della cronaca

Il giornalismo di cronaca ti succhia l'anima, ti riempie la vita e insieme per la prosciuga. Non è semplicemente una professione, è uno modo di esistere. Il cronista non conoscere orari, sabati, domeniche, Natali, giorni festivi. La strada, i bar, le caserme dei carabinieri, i commissariati, i distaccamenti dei pompieri, le corsie d'ospedale, le aule dei consigli comunali sono una seconda casa in cui spesso si trascorrere più tempo di quella vera. Certo nel mio caso non sono le strade, le caserme, i commissariati, distaccamenti, i reparti d'ospedale, i palazzi del potere di Beirut, Gaza, degli altri posti dove si spara e combatte e nemmeno di metropoli. Ma da queste strada, caserme, commissariati, distaccamenti, ospedali, municipi passano spesso le notizie che poi vengono riprese, copiate dai più illustri colleghi dei mezzi di informazione nazionale: il missionario ucciso nelle Filippine, Eluana Englaro, la mamma che pugnala il bambino piccolo, quella che sgozza tre figlie in un solo colpo, Joele Leotta, le indagini per mafia come “Metastasi”, le mazzette in cambio di appalti, promozioni facili, convenzioni, concessioni edilizie...
Spesso mi chiedo se ne valga la pena, specie dopo che quattro miei colleghi che hanno dimostrato di meritare un posto di lavoro, di avere diritto al posto di lavoro, quel posto che si sono meritati e di cui avevano diritto lo hanno perso. A giudicare dallo stipendio no, tanto meno a giudicare da quello dei colleghi che prendono meno di me. Non serve nemmeno per la carriera, chi esce dalle scuole di giornalismo o dagli stage ha molte più possibilità di me di finire in redazione, ottenere un contratto con compensi molto più alti e benefit che per me sono più lontani di un miraggio. Anche la considerazione gioca contro: a causa di pochi colleghi tutta la categoria dei giornalisti viene messa sempre in discussione ed è ritenuta poco credibile. Per non parlare delle querele, degli insulti, delle minacce... Chi fa il mio mestiere, quello di corrispondente locale, di cronista di provincia, conosce bene tutto ciò, agli altri è inutile spiegarlo, tanto non comprenderebbero mai.
E allora: ne vale la pena? Forse no, non ne vale la pena. Ma non conoscono altri modi. Perchè è come una droga, una dipendenza, una malattia dell'animo, perchè è un modo di esistere e di essere. Perchè il cronista questa fa. E chissenefrega dello stipendio da fame, della considerazione altrui, delle cause, dei paraculati che passano sempre avanti senza nemmeno accorgersi di aver vinto alla lotteria pur non avendo fatto la fatica di comperare il biglietto. Ne vale la pena? Per gli altri non lo so, per me sì, per me, almeno per ora. Mi piacerebbe solo che la possibilità di continuare svolgere questo sporco e insieme fantastico lavoro venisse assicurata a chi per questo lavoro ha dimostrato di avere la stoffa, ecco magari con qualche garanzia in più, e soprattutto maggior rispetto da parte di tutti, specialmente da parte di chi la cronaca non l'ha mai vissuta.

martedì 30 settembre 2014

I "sommersi" e i "salvati"

I sommersi e i salvati. O la lotteria del posto di lavoro, come la ruota della fortuna. Dovrei essere contento oggi, tre colleghi, dopo anni e anni di contratti a termine, precariato, anzi sfruttamento in cambio di illusioni, sono stati finalmente assunti definitivamente, per quanto abbia senso parlare di "definitivo" o posto fisso di questi tempi. Dovrei essere contento. Dovrei. Ma non lo sono.
Altri due colleghi, stessi anni di contratti a termine, precariato, anzi sfruttamento in cambio di illusioni, l'assunzione non l'hanno ottenuta. I ladri di sogni hanno colpito ancora. I motivi della scelta, della discriminazione, non li conosco, temo non ne esistano. Meritano tutti il posto. Anzi, hanno tutti diritto in egual misura al posto. Così non è. Non ancora, quando succederà, se succederà, sarà comunque troppo tardi.
Esuberi, esodi, costi, così li chiamano, non risorse, non professionalità. Non persone. Spremuti come limoni sino allo stremo, di notte, la domenica, durante l'estate, con compensi da fame, meno che da generazione mille euro. E poi presi a calci in culo.
Dovrei essere contento e lo sono per i "salvati". Dovrei essere contento. Dovrei. Ma non lo sono. Per chi è ancora "sommerso", sprofondato nell'umiliazione di un diritto al posto di lavoro e di un diritto del lavoro negati. Senza che chi avrebbe dovuto "salvare" anche loro, anzi avrebbe dovuto pretendere e ottenere di "salvare" anche loro, me compreso come loro fiduciario e componente del CdR, abbia potuto nulla, o sia stato in grado di ottenere nulla di piu', in un misto di senso di impotenza e di incapacità.
Non cambia nulla, le parole accrescono solo beffa alla beffa, ma mi sento pure io "sommerso". La lotteria l'ho persa anche io, il gioco era truccato, il banco vince sempre, eppure mi ero illuso che una volta tanto le regole sarebbero state rispettate e cioè che è peggio, imperdonabile, ho illuso anche i colleghi.

lunedì 29 settembre 2014

La sconfitta del sindacato, la sconfitta dei giornalisti

“Nelle giornate di venerdi 26 e sabato 27 settembre nella sede dell’Alg in Viale Monte Santo si sono svolte le elezioni per il referendum sul contratto FNSI-FIEG. Su 9382 aventi diritto al voto hanno votato 35 colleghi. Il verbale della Commissione Elettorale e le schede votate sono state trasmesse alla Federazione della Stampa”. Recita così un laconico comunicato stampa pubblicato sul sito dell'Associazione Lombarda Giornalisti circa il referendum dell'ultimo fine settimana sul nuovo contratto nazionale del lavoro giornalistico. Di conoscere il risultato non è dato. Si tratta comunque di una sconfitta. Per tutti. Per il sindacato. Per i giornalisti. Hanno vinto invece lo sconforto e la mancanza di partecipazione, la mia compresa, ho preferito quattro giorni al mare. Credo che sia giunto il tempo che in questo periodo difficile tutti si rimbocchino le maniche, specialmente coloro che, come me, sono tutelati per garantire le stesse tutele a chi non lo è. Bisogna tornare a fare sindacato, bisogna tornare a interessarsi del sindacato, bisogna tornare a metterci la faccia e sporcarsi le mani.
Iscrivendosi al sindacato innanzitutto. E poi candidandosi in massa e pretendere che chi verrà eletto renda conto di quanto fa, spieghi le ragioni delle scelte – magari sbagliate ma magari anche inevitabili, forse addirittura giuste, non lo so -. E lo faccia redazione per redazione, ufficio di corrispondenza per ufficio per corrispondenza, provincia per provincia, tramite Facebook, Twetter, i blog, siti dedicati, newsletter, incontri a cui probabilmente si presenteranno in quattro gatti, ma si deve per forza ricominciare a parlare e confrontarsi, faccia a faccia, collega per collega.
Chi ha un contratto, uno stipendio garantito, dei diritti assicurati ha l'obbligo morale di dedicare parte del proprio tempo e delle sue energie anche a questo, per ascoltare, per comprendere, per lasciarsi commuovere dalla condizione di un esercito di colleghi obbligati a sopportare condizioni che rasentano lo schiavismo e il ricatto, perchè di colleghi si tratta, di persone con pari dignità, non di figli di un dio minore solo perchè hanno avuto la “sfortuna” di nascere dopo, di non conoscere nessuno, di non avere mentori.
E chi ha fallito, chi ci ha portato a percentuali di partecipazione a dir poco imbarazzanti, deve farsi da parte, accettare ruoli di secondo piano, limitarsi a consigliare, guidare, trasmettere l'esperienza importante maturata. Non perchè non ha fatto bene, non perchè ha fatto male, non ho le competenze per giudicare, ma perchè non ha comunicato, non ha coinvolto, non ha condiviso. Perchè ha allontanato i giornalisti dal sindacato, che invece deve essere la casa di tutti, specialmente di chi un tetto - rappresentanto da certezze contributive e retributive, da prospettive di lavoro, dal sogno di futuro - non lo ha.
Dobbiamo riprenderci il fututo che ci è stato rubato anche per colpa nostra, perché abbiamo permesso che il futuro ce lo rubassero.