Il posto fisso non esiste più. Io,
noi, che pure il posto fisso come mosche bianche lo abbiamo ancora,
lo avevamo capito da tempo. Ne abbiamo visti a decine di colleghi
falcidiati dopo innumerevoli mesi di contratti a termine, anzi a
“scadenza”, come la maionese impazzita. Non numeri, ma persone,
con nomi, cognomi precisi, storie individuali, famiglie, aspettative,
sogni, professionalità grinta, passione, “uccisi” dai ladri di
futuro. E ogni giorno lavoriamo con collaboratori coordinati e
continuativi, collaboratori a progetto, collaboratori a partita Iva,
abusivi, semiabusivi, senza i quali molte pagine dei giornali,
cartacei e telematici, non potrebbero essere pubblicate. Ma anche noi
“tutelati” o “garantiti”, per ora privilegiati e fortunati
rispetto agli altri, non ci sentiamo più tanto “tutelati” o
“garantiti”. Prepensionamenti più o meno volontari, contratti di
solidarietà, cassaintegrazione, stati di crisi, trattative al
ribasso in nome della recessione e del difficile momento
dell'editoria hanno reso e rendono tutti precari. Il problema non è
il posto fisso, il problema è il posto, i posti, perché chi esce o
viene fatto uscire non riesce più a rientrare, non solo come
“tutelato”, ma nemmeno come precario. Credo che le riforme serie
non si realizzino abrogando le tutele, ammesso che ne esistano
ancora, né rivelando l'ovvio. Lo comprenderebbe anche un fesso come
me!
domenica 26 ottobre 2014
giovedì 16 ottobre 2014
Non sarà troppo?
Altro che equo compenso! Altro che
reddito minimo garantito! Altro che dignità dei giornalisti! Quelli
dell'amministrazione comunale di Campi Bisenzio, Firenze - centrosinistra naturalmente! -, cercano un
direttore responsabile per il giornalino municipale, che mi dicono
essere una testata storica nel settore. I requisiti? Essere un
giornalista professionista o pubblicista iscritto all'albo. Il
compenso? Udite udite: la bellezza di 50 euro al lordo delle ritenute
fiscali a numero, quattro pagine in formato A3. No, non è uno
scherzo, è tutto riportato sul sito internet dell'ente locale, cliccare per credere. A
trarre i conti verrà sì e no 600 euro, naturalmente lordi, in un
anno. Non sarà troppo? “E' la stampa, bellezza! E' la stampa! E tu
non ci puoi far niente! Niente!”
mercoledì 8 ottobre 2014
Il disequo scompenso alla sbarra, la corte si aggiorna
I magistrati del Tar del Lazio hanno fissato per gennaio l’udienza
sulla faccenda dell’equo compenso, che di equo e di compenso mi pare abbia
proprio nulla. Se infatti la proposta era nata con lo scopo di garantire delle
tariffe giuste ai giornalisti precari, con tutto quello che ciò implica sulla
libertà di informazione, democrazia e tutti questi bei principi, il documento
approvato poi dai capidelegazione del sindacato nazionale e degli editori non assicura niente di tutto ciò, né prezzi
adeguati al lavoro che si svolge né i precari, perché contiene tante e tali
formule che alla fine consentono ai proprietari dei mezzi di informazione di
pagare ancora meno. Mi riferisco ad esempio alle clausole che escludono le
partite Iva, oppure che prevedono tariffe decrescenti in base alle numero dei
pezzi scritti, o alla forfetizzazione… con il risultato che coloro che dovevano
essere maggiormente salvaguardati non lo saranno e che chi in qualche misura lo
era non lo sarà più. Chiunque svolga questo mestiere e conosce come girano le
cose nelle redazioni se ne sarebbe accorto, non quelli della Fnsi, che
evidentemente – come dimostrato dal referendum sul nuovo contratto nazionale –
ormai hanno perso ogni contatto (ma anche il contratto!!!) con chi dovrebbero rappresentare
.
Insomma l’equo compenso, successivamente definito reddito
minimo garantito (3mila euro all’anno reddito minimo garantito?!?), si dovrebbe
chiamare piuttosto disequo scompenso, come lo scompenso cardiaco che ha
provocato in quanti veramente ci hanno creduto .
Fortunatamente quello che non hanno capito i nostri
sindacalisti lo ha capito il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo
Iacopino che ha presentato ricorso ai giudici del Tribunale amministrativo
regionale. Ebbene oggi, mercoledì 8 ottobre, a poche ore dal termine dellaGiornata del lavoro dignitosi, i togati hanno riaggiornato la trattazione della
questione tra tre mesi, pochi dati i tempi biblici della giustizia italica.
Evidentemente si sono fatti l’idea che sussistono elementi per spicciarsi.
Due aspetti però mi inquietano. Il “dopo” innanzitutto, nel
senso che non vorrei che l’equo compenso finisca nel dimenticatoio e nessuno ci
metta più mano. In ogni modo meglio nessuna legge che una cattiva legge.
Inoltre ho qualche perplessità sulla frattura tra esponenti della Fnsi e dell’Odg,
sancita dal ricorso presentato da questi ultimi. In un momento storico come
questo in cui tutti noi giornalisti siamo criticati, vituperati, minacciati
(magari anche per colpa di qualche collega che scredita l’intera categoria) un
poco più di unità non guasterebbe, non per corporativismo, ma per respingere
con più fermezza gli attacchi di chi pensa che l’articolo 21 della nostra
Costituzione sia da rottamare.
martedì 7 ottobre 2014
Il lavoro non dignitoso non è lavoro
In pochi lo sanno, ma oggi, il 7 ottobre , è la Giornata mondiale del lavoro dignitoso. Sandro Pertini diceva che non si può "considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro,che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli ed educarli". E ancora: "Questo non è un uomo libero. Sarà libero di bestemmiare, di imprecare, ma questa non è libertà".
Parlare di lavoro dignitoso quando è già difficile parlare di lavoro pare quasi un paradosso. Eppure io credo che un lavoro non dignitoso non sia lavoro. E' sfruttamento, è ricatto, non è lavoro.
Ecco, io credo che non si possa considerare veramente libero un uomo che non ha un lavoro dignitoso, che è umiliato dal costante ricatto dalla crisi, che viene sfruttato in nome delle rischio della perdita del posto di lavoro. E questo purtroppo capita anche nei giornali, che dovrebbero essere i guardiani della democrazia, ma che spesso invece diventano il luogo del ricatto e dello sfruttamento.
Parlare di lavoro dignitoso quando è già difficile parlare di lavoro pare quasi un paradosso. Eppure io credo che un lavoro non dignitoso non sia lavoro. E' sfruttamento, è ricatto, non è lavoro.
Ecco, io credo che non si possa considerare veramente libero un uomo che non ha un lavoro dignitoso, che è umiliato dal costante ricatto dalla crisi, che viene sfruttato in nome delle rischio della perdita del posto di lavoro. E questo purtroppo capita anche nei giornali, che dovrebbero essere i guardiani della democrazia, ma che spesso invece diventano il luogo del ricatto e dello sfruttamento.
sabato 4 ottobre 2014
La droga della cronaca
Il giornalismo di cronaca ti succhia
l'anima, ti riempie la vita e insieme per la prosciuga. Non è
semplicemente una professione, è uno modo di esistere. Il cronista
non conoscere orari, sabati, domeniche, Natali, giorni festivi. La
strada, i bar, le caserme dei carabinieri, i commissariati, i
distaccamenti dei pompieri, le corsie d'ospedale, le aule dei
consigli comunali sono una seconda casa in cui spesso si trascorrere
più tempo di quella vera. Certo nel mio caso non sono le strade, le
caserme, i commissariati, distaccamenti, i reparti d'ospedale, i
palazzi del potere di Beirut, Gaza, degli altri posti dove si spara e
combatte e nemmeno di metropoli. Ma da queste strada, caserme,
commissariati, distaccamenti, ospedali, municipi passano spesso le
notizie che poi vengono riprese, copiate dai più illustri colleghi
dei mezzi di informazione nazionale: il missionario ucciso nelle
Filippine, Eluana Englaro, la mamma che pugnala il bambino piccolo,
quella che sgozza tre figlie in un solo colpo, Joele Leotta, le
indagini per mafia come “Metastasi”, le mazzette in cambio di
appalti, promozioni facili, convenzioni, concessioni edilizie...
Spesso mi chiedo se ne valga la pena,
specie dopo che quattro miei colleghi che hanno dimostrato di
meritare un posto di lavoro, di avere diritto al posto di lavoro,
quel posto che si sono meritati e di cui avevano diritto lo hanno
perso. A giudicare dallo stipendio no, tanto meno a giudicare da
quello dei colleghi che prendono meno di me. Non serve nemmeno per la
carriera, chi esce dalle scuole di giornalismo o dagli stage ha molte più possibilità di me di
finire in redazione, ottenere un contratto con compensi molto più
alti e benefit che per me sono più lontani di un miraggio. Anche la
considerazione gioca contro: a causa di pochi colleghi tutta la
categoria dei giornalisti viene messa sempre in discussione ed è
ritenuta poco credibile. Per non parlare delle querele, degli
insulti, delle minacce... Chi fa il mio mestiere, quello di corrispondente locale, di cronista di provincia, conosce bene tutto ciò, agli altri è inutile
spiegarlo, tanto non comprenderebbero mai.
E allora: ne vale la pena? Forse no,
non ne vale la pena. Ma non conoscono altri modi. Perchè è come una
droga, una dipendenza, una malattia dell'animo, perchè è un modo di
esistere e di essere. Perchè il cronista questa fa. E chissenefrega
dello stipendio da fame, della considerazione altrui, delle cause,
dei paraculati che passano sempre avanti senza nemmeno accorgersi di
aver vinto alla lotteria pur non avendo fatto la fatica di comperare
il biglietto. Ne vale la pena? Per gli altri non lo so, per me sì,
per me, almeno per ora. Mi piacerebbe solo che la possibilità di
continuare svolgere questo sporco e insieme fantastico lavoro venisse
assicurata a chi per questo lavoro ha dimostrato di avere la stoffa,
ecco magari con qualche garanzia in più, e soprattutto maggior
rispetto da parte di tutti, specialmente da parte di chi la cronaca
non l'ha mai vissuta.
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